Periodi storici – Certosa di San Bruno.

images[4]A cura di   G. Madonna. 2017                            

La Parola nel silenzio della solitudine in Calabria. 

mj

Dalla Francia alla Calabria –  Italia.

 Dal 1091 al 1193

Bruno z1 in solitudine incontrò il generoso conte Ruggero d’Altavilla che gli offrì un territorio nella località Torre a 850 metri di altitudine nel cuore della Calabria e nel 1090 fondò l’eremo di Santa Maria e il monastero di Santo Stefano. In questi luoghi,  Bruno trovò negli ultimi dieci anni della sua vita le condizioni ideali per riprendere la vita che aveva condotto in Francia, fatta di silenzio, meditazione, preghiera e solitudine. Domenica 6 ottobre del 1101 è il giorno in cui la vita terrena di Bruno si spense, circondato dall’amore dei suoi confratelli, fu poi seppellito in una grotta dove spesso egli si recava per pregare. Quando morì Bruno il 6 ottobre 1101, il naturale e qualificato successore a maestro o priore della Certosa era Lanuino, suo compagno fedele e suo collaboratore scelto,  procuratore ed aiuto il Beato Lanuino, divenne superiore del monastero dei fratelli, dedicato a Santo Stefano ed ubicato dove ora sorge la Certosa. Fu lui l’architetto della prima costruzione del complesso monastico certosino, nonché della grangia di Montauro. Normanno d’origine, venne in Italia ed in Calabria con San Bruno. Dal 1091 tutti i diplomi normanni e le Bolle papali vengono invariabilmente indirizzati a Bruno e Lanuino. La Santa Sede, sollecitata ad intervenire, inviò un suo delegato a presiedere il capitolo nella persona del Cardinale Riccardo, vescovo d’Albano.

 Lanuino fu eletto maestro dell’Eremo dai 31 monaci, che formavano allora la comunità della Certosa di Calabria. Pasquale II se ne congratulò con lui nella Bolla «Quo magnopere desideravimus» del 26 novembre 1101, con la quale lo invitava a recarsi a Roma per la prossima Quaresima «per scambiarci meglio i sentimenti del nostro cuore». «Durante gli anni, in cui presiedette la Certosa, il suo dinamismo ebbe modo di affermarsi, specialmente nella sistemazione dei monasteri posti alla sua dipendenza. Favorito dai Normanni, che gli fornirono uomini e mezzi, mise mano alla grandiosa costruzione del monastero, tradusse in pratica le consuetudini monastiche bruniane e organizzò la vita religiosa» (ibid.).

«Pasquale II lo invitò a partecipare al sinodo romano del 1102; due anni dopo lo incaricò di recarsi a Mileto per convincere il capitolo di quella Chiesa ad assicurare alla diocesi un successore al Vescovo morto; nello stesso anno lo delegò alla scelta di un degno abate per il monastero benedettino di San Giuliano, presso Rocca Falluca; nel 1108 lo nominò Visitatore Apostolico di tutti i monasteri della Calabria; infine nel 1113 confermò con due Bolle le disposizioni da lui impartite circa la disciplina dell’eremo e della Certosa».

Fra i nomi dei Maestri che si succedettero all’Eremo, noi troviamo quello di Lamberto, reputato Beato, di Leone, Germano, Rodolfo del Crocifisso, Sicchero, Andrea, Nicola, Landricco, Enrico, Benedetto, Guido e – per tre volte – Guglielmo di Messina.

Vi fu un’epoca in cui, dopo le prime donazioni territoriali e le relative «conferme» papali e diocesane, varie altre se ne aggiunsero, da parte della nobiltà calabrese. Il possedimento, per conseguenza, si arricchì notevolmente, si estese tutt’intorno per vasto raggio, tanto che finì per spingere i monaci lontano dalla stretta osservanza di vita solitaria insegnata da San Bruno. Addirittura, nel 1193, una parte della comunità lasciò l’Ordine certosino e passò a quello dei cistercensi di Fossanova (Latina) cosicché finì col condurre vita essenzialmente cenobitica. L’altra parte si ritirò alle falde settentrionali dell’Aspromonte, nella zona di Castellace, oggi frazione di Oppido Mamertina, a circa 200 metri di altitudine.

Dal 1193 al 1500 – Per il cambio d’indirizzo monastico dalla regola certosina a quella cistercense, intervennero documenti regi e pontifici. Le lettere «regie e pontificie» attestano la motivazione soprannaturale della mutazione come «per ispirazione di Dio». Benché non si possa negare la perdita di spiritualità solitaria ereditata da San Bruno, non sarebbe giusto, però, tacciare di rilassatezza i monaci di allora. Infatti, dal 1193 comincia un’epoca nuova molto importante per la storia civile e religiosa: il monastero è retto da abati e probabilmente furono subito abati territoriali, dovendo amministrare i casali sorti sui possedimenti ereditati dai certosini. Si tratta di una specie di diocesi che durerà fino alla Rivoluzione francese, anzi, fino al 1808, perciò protratta anche sotto la giurisdizione ecclesiale e quasi episcopale dei priori certosini succeduti ai Cistercensi nel 1514. Dal 1193 fino al 1411 ressero il monastero, o abbazia nullius, una ventina di abati cistercensi, tra i quali si ricordano Guglielmo, eletto vescovo della diocesi di Squillace; Tommaso, eletto vescovo di Martirano, verso il 1250 e, successivamente, pure vescovo di Squillace; Andrea, eletto nel 1298 vescovo di Mileto, prelato dotto e virtuoso, familiare e cappellano del re Carlo II d’Angiò.

Dopo il passaggio della Certosa dalla regola eremitica certosina a quella cenobitica cistercense, il monastero di Santo Stefano, già residenza dei fratelli conversi, divenne la sede centrale del feudo monastico costituitosi mano a mano intorno a Santa Maria del Bosco, il quale comprendeva i territori di Spadola, Montauro, Gasperina e Bivongi, e i centri agricoli («grance») dei SS. Apostoli a Bivongi, di Sant’Anna a Montauro, di Santa Barbara a Mammola, e vari altri, i cui nomi variano nel corso dei secoli.

Mentre il governo dei priori certosini e dei successivi abati cistercensi per i primi due secoli fu svolto con lodevole attenzione, sia al ministero pastorale, sia all’amministrazione dei beni del feudo; purtroppo, in seguito, i feudi monastici e anche il monastero di Santo Stefano con il suo esteso territorio furono colpiti dal flagello dell’epoca, ossia dall’istituzione della commenda. Con ciò le risorse passarono a persone estranee alla vita del monastero, le quali non pensavano che ad arricchirsi con i beni dei monaci, senza provvedere ad essi e ai coloni il necessario per un adeguato sviluppo del feudo.

Nel 1411 il Monastero di Santo Stefano passò in commenda a un prelato residente a Napoli, che percepiva le rendite, mentre il convento venne governato da un superiore privato dei beni materiali necessari a una ordinata e proficua amministrazione del feudo, di modo che l’economia languì e ogni attività stagnò, finché nel secolo XV i terreni furono alienati e l’Abbazia di Santo Stefano fu messa a disposizione del Sommo Pontefice.

 Dal 1500 al 1826 – Agli inizi del 1500, verso l’anno 1505, avvenne un lietissimo evento, che fece rifiorire il convento di Santo Stefano e la località di Santa Maria, ossia il ritrovamento nella chiesa di S. Maria dei corpi di Bruno e del successore Lanuino, che erano stati sepolti in quella chiesa, ma dei quali, probabilmente a causa dell’amministrazione cistercense e della commenda, s’era perduta la memoria. Le Reliquie furono portate solennemente in processione, il martedì di Pentecoste, con grandissimo concorso di popolo, non solo dei serresi, ma anche di numerosi fedeli dei paesi vicini, processione continuata ogni anno da allora fino ad oggi.

In seguito a questi avvenimenti, il Papa Leone X, nel 1514, approvò il culto di San Bruno. Richiamò poi a Serra i certosini, i quali con stenti, ma anche con tenacia, energia e fervore ricominciarono a restaurare chiesa e convento e a ricostituire la comunità e il feudo. I beni alienati ritornarono ai loro legittimi proprietari, e la chiesa della Certosa era già completamente restaurata nel 1600, diventata una delle più belle della Calabria. Fu principalmente il priore D. Bertrand Chalup ( + 1619) che ricostruì completamente il monastero.

Per i lavori di restauro e anche in seguito furono chiamati celebri artisti da Napoli, dalle Fiandre, da Berlino e da varie parti d’Italia. La Certosa iniziò allora un’epoca segnata dallo splendore del culto e delle opere d’arte, dalla sollecitudine di ben governare i sudditi serresi e viciniori, di elevare il tenore di vita dei coloni e dei contadini della zona, promuovendo anche un fiorente artigianato, specie per la lavorazione della pietra locale di granito, del legno e del ferro, e soprattutto dalla cura di assistere i poveri, gli infermi e in genere i bisognosi.

In questo periodo succedettero nel governo della Certosa 58 Priori di cui 26 calabresi. Degli ultimi 20 Priori che governarono la Certosa dal 1660 al 1786, uno era di Palermo, due di Napoli, e ben 17 calabresi.

Purtroppo nel 1783 un terribile terremoto venne ad arrestare improvvisamente e tragicamente tutto quel fervore di opere. Il 7 febbraio, giorno di venerdì, verso le ore due del pomeriggio una violenta scossa del 9° grado della scala Mercalli, con epicentro a Soriano e dintorni, seminò il terrore in tutta la Calabria e cagionò rovine indescrivibili, mietendo in pochi istanti circa 40.000 vittime.

In Certosa non ci fu perdita di vite umane, ma degli edifici neppure uno rimase illeso; andò in rovina in un attimo il lavoro di secoli. E ben presto i monaci dovettero abbandonare Serra; i loro terreni furono incamerati; i libri, i documenti e i tesori della chiesa furono sequestrati o trafugati, finché nel 1808 la Certosa fu soppressa con decreto di Giuseppe Napoleone. Con la soppressione del Monastero, furono abolite anche la feudalità e la stessa Prelatura territoriale della Certosa, il cui territorio, da secoli governato sul piano spirituale e temporale dal priore del Monastero, passò alla diocesi di Gerace, e in seguito, nel 1852, la S. Sede lo diede alla Diocesi di Squillace, tranne il territorio di Fabrizia che fu aggiudicato alla Diocesi di Gerace. Cosicché la Certosa, un giorno così ricca e fiorente, privata ora di tutti i suoi beni e distrutta dal terremoto, era ormai agli inizi dell’Ottocento ridotta a un cumulo di rovine, dove regnava lo squallore ed era impossibile ogni vita monastica.

La bellissima chiesa del monastero, esposta alle piogge e intemperie, vide lentamente deperire i beni non ancora asportati, finché nell’inverno del 1820, l’Arciprete di Serra, D. Bruno Maria Tedeschi, mobilitò la popolazione per salvare il salvabile. In questa circostanza la chiesa fu spogliata degli altari, delle statue, dei marmi e di ogni altra cosa bella e artistica che ancor vi rimaneva. Gran parte dell’arredamento finì nelle chiese di Serra, dove ancora oggi viene gelosamente custodito e reso accessibile ai visitatori. Nel 1826 il Comune di Serra acquistò l’edificio della Certosa, rovinato dal suddetto terremoto, allo scopo di preservarlo da una completa distruzione. Con tale compera il Comune entrò in possesso anche del busto argenteo e delle Reliquie di San Bruno e del B. Lanuino, che furono conservate nella chiesa matrice.

Dal 1826 ad oggi

 I Certosini non erano stati dimenticati, ché anzi se ne avvertiva la mancanza e si desiderava ardentemente riaverli vicini; si cercò di farli tornare e si fecero varie richieste, che trovarono accoglienza nel 1840, grazie alle premurose, vive, incessanti sollecitazioni dell’Arcivescovo di Rossano Mons. Bruno Maria Tedeschi, serrese e già arciprete del paese nativo. Ormai la Certosa era da riedificare completamente.

Dopo un fallito tentativo di ricupero della Certosa, per opera del Padre D. Stefano Franchet (1840-1844), un rescritto del Re di Napoli Ferdinando II, del 21 giugno 1856, dava finalmente nuova vita alla Certosa, mettendo cioè in esecuzione il Decreto del 1840. Fu inviato come priore il portoghese D. Vittorio Nabantino, illustre personaggio con stretti legami con la Corte, il quale venne da Napoli col modesto seguito di alcuni certosini, accolti con grande entusiasmo e gioia dalla popolazione serrese.

Il 30 maggio 1857 il busto argenteo di San Bruno fu trasferito solennemente dalla chiesa matrice alla primitiva sua sede coll’intervento di numeroso clero, di molte congreghe, di soldati e di un’immensa folla.

I nuovi arrivati, sotto la guida dello zelante priore, in una precaria condizione di estrema povertà, senza più nessun bene, e un monastero quasi del tutto distrutto, che non era più nemmeno di loro proprietà, si accinsero con fede e coraggio a una lenta e faticosa ricostruzione della rovinata Certosa. Frattanto, nel 1860, avvenne anche l’annessione della Calabria allo Stato italiano cui passarono i beni demaniali, confiscati dai precedenti governi spagnoli e francesi. La situazione, già precaria, doveva aggravarsi con le leggi italiane del 1866. A causa di queste circostanze, la ricostruzione procedette stentatamente, finché non si ebbe un diretto e concreto intervento della Casa Madre, la Gran Certosa di Francia, «la quale nel 1887 acquistò dal Comune di Serra i ruderi della distrutta Certosa con il terreno racchiuso tra le sue mura e, nel 1894, nella previsione di una prossima espulsione, a causa di moti anticlericali, di tutti i religiosi dalla Francia, prese, in seguito ad un’ordinanza del Capitolo Generale dell’Ordine, la risoluzione di ricostruire, a proprie spese, totalmente la Certosa, incaricando per l’opera l’architetto francese Francesco Pichat»[1]

Il grandioso complesso edilizio fu costruito da maestranze locali, su progettazione e sotto la direzione del Pichat, dietro studiata continuazione dell’edilizia anteriore. Una parte direzionale dei lavori fu affidata anche al serrese Alfonso Scrivo, padre degli artisti Giovanni e Bruno Scrivo, che arricchirono la nuova chiesa della Certosa con loro pregevoli opere, tra cui il ricco altare e le due marmoree statue di S. Bruno e del beato Lanuino, opera di Giovanni, e i bassorilievi lignei dei quattro Evangelisti, scolpiti dal suo fratello Bruno, sacerdote.

La ricostruzione durò sino alla fine del secolo e venne inaugurata, il 13 novembre 1900, con la solenne consacrazione della chiesa, per mano del Vescovo serrese Mons. Giuseppe Barillari.

Nella chiesa del monastero sono custodite, sopra l’altare maggiore, oltre al busto argenteo contenente il cranio di San Bruno, le ossa del Santo Fondatore dell’Ordine certosino e del suo immediato successore, il beato Lanuino, conservate in un‘urna marmorea, con intarsiate le parole: «In morte quoque non sunt divisi».

Dell’antico monastero rimangono: l’antico priorato, il piano della biblioteca, la sala del Capitolo, il refettorio, le cantine con un pregevole atrio antistante alla dispensa, gli imponenti ruderi della chiesa e del chiostro dei procuratori con al centro un’artistica fontana granitica del Seicento, il vasto muro di cinta con i solidi torrioni cilindrici, costruiti nel 1534 a difesa dalle incursioni dei Saraceni, i due altari di marmo policromo del priorato e della cappella di famiglia; infine, ornamentazioni varie in granito, tra cui le eleganti cornici delle porte del refettorio, della sala del Capitolo, dell’entrata principale al chiostro e dell’antico appartamento del priorato nel cui giardino si può ancor oggi ammirare un’artistica fontana barocca, tre interessanti scalette a chiocciola costruite con abile virtuosismo, una che porta dall’antico giardino del priorato alla attuale foresteria interna, la seconda che dà accesso alla tribuna della chiesa e la terza nella torre dell’orologio; la multiforme decorazione floreale ai lati dei finestrini prospicienti il giardino del grande chiostro, e soprattutto l’espressiva statua seicentesca di S. Bruno e quella di Santo Stefano, che ornavano la monumentale facciata della chiesa dell’antica Certosa.

Dall’inizio del secolo ad oggi, la vita claustrale, nella ricostruita Certosa, è proseguita regolarmente, nonostante le vicende delle due guerre mondiali. Tra gli avvenimenti più importanti è da segnalare la visita straordinaria alla Certosa del Santo Padre Giovanni Paolo II, il giorno 5 ottobre 1984, vigilia della festa di San Bruno. Il Papa volle qui commemorare il IX Centenario della fondazione dell’Ordine certosino. Nella chiesa del monastero tenne un discorso, affermando, sulla traccia della lettera di San Bruno a Rodolfo il Verde, l’importanza e la perenne attualità della vocazione puramente contemplativa. Poi accostò ad uno ad uno i monaci e volle anche presenziare paternamente all’agape fraterna nel grande refettorio del monastero.a5a cura di  Gerardo Madonna

Lascia un commento